Abstract
L’articolo esplora i dati etnografici sulla magia lucana raccolti da De Martino rivisti alla luce degli studi sullo Sciamanismo di Eliade e Harner. Analizzandone la struttura si confronteranno alcuni rituali sciamanici propri di culture tribali, con le tecniche usate dalle “fattucchiere” lucane. Si mostrerà come la struttura di tali pratiche sia la medesima, nonostante il diverso contesto culturale. Si rileverà in tal modo la persistenza in Lucania di un sostrato di riti eurasiatici a sfondo sciamanico.
Parole chiave: Sciamanismo; core-shamanism; sciamanismo italiano; riti italiani; malocchio; fascino; Lucania.
Introduzione
Gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Questa affermazione è stata vera per secoli, nel bene e nel male: in India lo sguardo che il maestro elargisce ai propri discepoli è detto darshan, e attraverso di esso trasferisce loro conoscenza, saggezza e amore.
Il contrario, tuttavia, è altrettanto valido: il malocchio, la trasmissione d’influssi malefici – invidia, rabbia, maleficio – mediante lo sguardo è una credenza presente in diverse culture tradizionali.
In Lucania l’atto per il quale è possibile legare e ‘maledire’ un destino individuale è chiamato ‘fascino’.
La fascinazione ha precise regole e funzioni, codificate nella e dalla cultura di appartenenza, così come le formule per annullarla, indicate dall’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino come “formule di bassa magia cerimoniale” (De Martino 2003).
Questo corpus di formule per eliminare gli influssi malefici afferisce alla ancora più vasta e variegata concezione della “magia”. Essa, lungi dall’essere il luogo metaforico del non-conosciuto, dell’irrazionale e dell’indefinito, si pone quale rifugio culturale all’incertezza dell’esistenza e alla paura dell’ignoto, la cui radice è la paura più grande di tutte: la paura di morire.
Tali formule sono tanto più efficaci quanto le persone in esse ripongono la propria fiducia, come se le pratiche dell’uno – malocchio/fascino – e delle altre – formule per eliminarlo – codificate all’interno di un nucleo culturale rappresentassero una sovrastruttura stabile perché consensuale.
Come ogni pratica magica, essa acquisisce senso e valore laddove storicizzata, cioè calata entro la cornice di un linguaggio specifico e un sentire condiviso. Tuttavia è possibile trovare quegli elementi comuni a tradizioni affini ovvero distanti tra loro.
È questo il lavoro di ricerca e di insegnamento di Harner (Harner 2005, 2014) che partendo da un lavoro comparativo sui metodi usati dagli sciamani di tutto il mondo per alterare lo stato di coscienza, è giunto alla teorizzazione del Core Shamanism (sciamanismo transculturale).
Il nucleo del corpus di lavoro sul campo di Harner si può condensare con l’assunto secondo il quale lo sciamanismo non sia solo un metodo arcaico – vecchio di trentamila anni stando ai disegni rupestri del paleolitico – per la guarigione, ma di una strategia a carattere trans-culturale che si avvale di potenzialità umane universali (Harner 1999).
Alla conoscenza teorica Harner ha affiancato un lavoro attivo di tipo esperienziale: la metodologia della “partecipazione radicale” (Harner 2009b) cerca conferma del dato osservato mediante la sperimentazione diretta delle pratiche sciamaniche, i cui effetti vengono perciò enunciati in base all’esperienza personale. Il lavoro pionieristico di Harner, che confluisce nella Foundation for Shamanic Studies si traduce in una eredità composta da teoria e pratica dei metodi dello sciamanismo.
Senza entrare nella questione metafisica circa l’esistenza della condizione cognitiva della “realtà non-ordinaria” (Castaneda 1999) o “manifestazione straordinaria della realtà” (Lowie 1952), percepita nello “stato sciamanico di coscienza”, ci limitiamo a riportare la qualificazione proposta da Harner di “cognicentrismo” (Harner 1999) con riferimento ai pregiudizi scientisti su tale fenomenologia.
Si noterà come la concettualizzazione di un qualità ontologica con riferimento al malocchio corrisponda a una declinazione nel campo culturale-etnografico del sud Italia del nuovo paradigma dell’ “Ontological Turn”, Svolta Ontologica (Descola 2014; Latour 2005, 2015; Viveiros de Castro 2009, 2014, 2015).
Seppur con presupposti diversi (Mancuso 2016) i suoi sostenitori tentano di annullare la distanza tra alcuni dualismi “ontologici” propri di un modello concettuale precedente quali natura/cultura, soggetto/oggetto, persone/cose laddove tali dualismi non si riscontrerebbero all’interno di cosmologie passate e presenti di molte culture del mondo.
La sopravvivenza delle formule rituali per togliere il “malocchio”, se questi può essere l’ultima forma di un rituale sciamanico ben più antico afferente a credenze animistiche, propone l’ipotesi di un residuo contemporaneo e non distante da noi di un modo di vedere l’esistente, e perciò di crearlo, in linea con l’“antropologia della vita” (Kohn 2013) che propone una cornice teorica trans-specie ripensando le relazioni tra gli umani e i loro ambienti di vita.
Il malocchio.
Nel sud Italia il malocchio è un fascinum, letteralmente un incantesimo, non dissimile dal potere di Medusa di pietrificare attraverso lo sguardo qualsiasi essere vivente. L’accezione del termine malocchio è sottesa all’invidia (da invidere, vedere intensamente) laddove lo sguardo conduce sentimenti malevoli e frustrati: guardare, desiderandolo, ciò che non si possiede e, insieme, volendolo sottrarre a colui che, invece, lo possiede.
Lungi dall’essere una credenza racchiusa in un mondo rurale e legata a un territorio depresso o, ancora, a un luogo del passato, l’egittologo Sir Wallis Budge afferma che “ogni lingua sia antica che moderna contiene una parola o una espressione per esprimere il concetto di malocchio” (Budge 1930). Si tratta di una credenza assai diffusa, attestata da fonti sumere del III millennio a.C., documenti assiri, greci e romani, con riferimenti nella talmudica, nell’epica irlandese, nell’Islam, in India, nell’Europa tutta e finanche in Inghilterra, nella cui modernità tale pratica risulta essere quasi totalmente assente (Thomas 2003).
Ecco quindi che ricevere degli elogi o degli apprezzamenti viene talvolta accompagnato dai debiti scongiuri – le dita delle mani in forma di corna rivolte verso il basso – al fine di smussarne o neutralizzarne gli influssi malefici.
Plinio narra di come una balia sputasse sul viso di un neonato – tre volte – per proteggerlo dall’ammirazione degli estranei.
Lo stesso Occhio di Allah, o Nazar Bonjuk in Turco, serve a contrastare – con un oggetto capace di restituire lo stesso potere di segno uguale e contrario – la malevolenza altrui, laddove soprattutto l’invidia provenga da occhi ignoti e pensieri non esplicitati verbalmente; stesso dicasi per la conchiglia sarda chiamata, appunto “l’occhio di Santa Lucia”[1].
L’amuleto dell’occhio è presente in molte culture del mediterraneo, dai Fenici agli Etruschi, passando per la Grecia e la Turchia, fino ad arrivare ai più antichi amuleti egiziani, come l’occhio di Horus o di Osiride. È così che l’oggetto materiale diviene simbolo tangibile dello sguardo, impregnato perciò di significato magico ed esoterico.
A Ferrandina, in provincia di Matera, è diffusa la credenza che chiunque nasca con le sopracciglia unite sull’attaccatura del naso sia un “masciaro” – mago – naturale, come se quelle fossero sufficienti a sottolineare o incorniciare un potere più grande: quello degli occhi, appunto.
Pultarco sosteneva che questi oggetti fungessero da “catalizzatore”, condensando su di loro l’influsso dello sguardo malevolo e distraendolo perciò dalla persona colpita.
Le religioni cattolica e protestante operarono al fine di epurare ed estirpare tali credenze dalla popolazione. Nel quindicesimo secolo in Europa divamparono “fuochi purificatori” con i processi per stregoneria. Migliaia di donne vennero bruciate vive in virtù di un supposto uso di “sguardi malefici” al servizio del diavolo in persona (Ginzburg 1997).[2]
Oltre agli oggetti, e più di essi, sono note anche formule e rituali usati per contrastare il malocchio. La Chiesa Ortodossa possiede tutt’oggi preghiere ufficiali da usare contro gli influssi della malevolenza. Nella stessa bibbia, in cui vengono riportate credenze e formule relative a tale pratica, leggiamo: “l’uomo dall’occhio maligno è impaziente di arricchirsi e non pensa che gli piomberà addosso la miseria” – proverbi (28:22).
Le “preghiere” rituali da recitare durante l’azione di rimozione del malocchio, ampiamente documentate nel già citato testo “Sud e Magia”, sono dette historiolae[3], e in Lucania sono trasmesse da madre in figlia soltanto nel giorno di Natale. Esse non sono ritornelli troppo lontani da noi se io stessa ne ricevetti insegnamento da mia madre, una notte di Natale di molti anni fa, che a sua volta lo ebbe dalla propria, e così via, in una antichissima e ininterrotta catena di antenate.
Malocchio e intrusione sciamanica.
Le similitudini, che vedremo tra poco, esistenti tra i rituali di rimozione del malocchio e le pratiche sciamaniche tribali farebbero supporre una derivazione degli uni dalle altre in un processo di diluizione e spostamento comune alle pratiche rituali delle credenze religiose non “ufficiali”, costrette a “nascondersi” e camuffarsi per poter sopravvivere alle forze distruttrici di nuovi innesti religiosi, in un processo noto all’antropologia e alla storia delle religioni con il nome di sincretismo.
D’altronde i principii e i metodi sciamanici sono simili in luoghi della terra distanti tra loro, come l’Australia, l’America, la Siberia, l’Asia, l’Europa, il Giappone, la Cina e l’Africa. Lo stesso Wilbert (1972) riporta corrispondenze e analogie tra i viaggi sciamanici dei Warau del Venezuela e dei Wiradjuri dell’Australia.[4]
Tralasciando in questa sede la funzione assolta dalle pratiche magiche che il consenso di una data comunità storica assegna a esse all’interno del contesto culturale storicizzato in cui sono inserite, l’esplorazione etnografica dell’uso, in Lucania, di pratiche di bassa magia cerimoniale quali le formule per estrarre il malocchio è correlato al significato del termine “fascinazione” – in dialetto fascino, o fascinatura. Esso sottintende la presenza di un “agente fascinatore” e di una vittima dell’ influenza negativa esercitata da uno sguardo invidioso.
Tale influenza magica si concretizza in mal di testa, dolori al corpo, sfortuna, stanchezza, tristezza e altri malesseri che invadono la persona a seguito dell’invidia o della malevolenza dell’ “agente fascinatore”.
Alla base del metodo di guarigione sciamanica vi è la credenza che una energia estranea si sia introdotta nella persona, mettendone a rischio l’integrità e, per esteso, la salute. Tali intrusioni possono essere tanto intenzionali – come ad esempio i dardi magici, i tsentsak inviati dagli stregoni Jivaro – quanto inconsapevoli. Similmente, nelle credenze lucane tali malìe possono essere inviate da fattucchiere in modo volontario o essere veicolate da sentimenti malevoli – l’invidia – per mezzo dello sguardo.
Le tecniche dell’estasi
Nella descrizione della cerimonia De Martino riporta che “la fattucchiera si immerge nel corso della recitazione in una condizione psichica oniroide controllata” (De Martino 2003: 16), non dissimile dallo stato di estasi descritto da Eliade: quello stesso stato che distingue lo sciamano da altri maghi e guaritori, in quanto gli permette di “lasciare il proprio corpo e ascendere al cielo o discendere nel mondo sotterraneo” (Eliade 1974: 5).
Tale stato alterato della coscienza proprio dello sciamano, che varia da una trance leggera a una molto profonda in una ampia gamma di sfumature sarebbe ottenuto, nella maggior parte dei casi, con la percussione continua e monotona dei tamburi, la quale produrrebbe cambiamenti nel sistema nervoso centrale (Maxfield 2006) oltreché, e più raramente, con l’assunzione di sostanze psicoattive.
Tali stati alterati di coscienza non sono da considerare come possessioni, quali quelle che afferiscono alla religiosità tradizionale yoruba e nella santeria, in cui la intera personalità del posseduto scompare per lasciare posto alla divinità che si “incarna” temporaneamente sulla terra, quanto piuttosto un entrare in uno stato di coscienza diverso da quello solito della veglia. Tuttavia sostenere che la trance sciamanica sia “uniformemente profonda” è fuorviante (Hultkrantz 1973: 25-37).
Gli stati di trance coinvolgono sia l’amplificazione di alcuni processi cognitivi interni sia un disaccoppiamento dell’elaborazione sensoriale (Hove, Stelzer, Nierhaus, Thiel, Gundlach, Margulies, Van Dijk, Turner, Keller, Merker, 2015).
Lo stato alterato di coscienza sembra essere caratterizzato da pensieri “orientati internamente”, rapidi cambiamenti della sfera emotiva e della propria immagine corporea, maggiore suggestionabilità e alterazione dell’elaborato sensorio.
Differenti tecniche di induzione della trance condurrebbero a uno stato di dominio del sistema parasimpatico in cui la corteccia frontale sarebbe dominata da pattern di onde lente originate nel sistema limbico e proiezioni correlate nelle regioni frontali del cervello. Ci sono evidenze a sostegno della posizione teorica secondo la quale esiste un insieme comune di cambiamenti psicofisiologici alla base di una varietà di tecniche di induzione della trance (Winkelman 1986; Dobkin De Rios e Winkelman 1989).
È in questo stato, con gli occhi chiusi o semi-chiusi, che lo sciamano percepisce altre dimensioni e “vede” ciò che è nascosto durante lo stato di veglia, ed è per lo stesso motivo che giace “come morto” o “addormentato”. Tuttavia, numerosi dati etnografici riportano che è possibile, per gli sciamani, “viaggiare” tra i mondi anche stando in piedi, con gli occhi aperti o semichiusi, mentre raccontano agli astanti cosa “vedono” dell’altro mondo (Eliade 1974); tale stato richiama lo sbadiglio assonnato della fattucchiera lucana che opera in uno stato semi onirico.
Una trance leggera dello sciamano che opera nella realtà “non- ordinaria” e che si fa tramite degli spiriti, dunque, può senz’altro essere paragonata allo stato “oniroide” controllato della fattucchiera lucana che proprio a entità spirituali chiede aiuto – come vedremo tra poco – e permette di postulare una inferenza circa la relazione tra i due guaritori.
In entrambi i processi si nota dunque una “rottura di livello” (Eliade 1974) del piano di realtà ordinaria che è proprio dello stato di veglia.
La suzione, lo sbadiglio e l’uso dell’acqua.
Nello sciamanismo l’estrazione di influssi nocivi visti dallo sciamano sotto forma di insetti o, in generale, di intrusioni dall’aspetto sgradevole avviene generalmente sotto forma di suzione.
Succhiare le intrusioni nocive è una tecnica ampiamente usata in culture sciamaniche anche molto distanti tra loro come Australia, America e Siberia (Harner 1999: 187). I già citati tsentsak – dardi magici- degli Jivaro, sono Spiriti Aiutanti che non soltanto possono essere lanciati contro qualcuno ma anche utilizzati per succhiare le intrusioni negative dal corpo. Essi fungono da scudo e lo sciamano ne trattiene due in bocca, uno nella parte anteriore e l’altro in quella posteriore. Tale disposizione funge da “trappola” poiché l’intrusione nociva viene catturata e infine sputata. Come illustra Harner (Harner 1999: 191), dopo aver succhiato l’intrusione, lo sciamano la riversa/vomita/sputa in un catino pieno d’acqua o di sabbia. Al termine del lavoro di pulizia lo sciamano porta l’acqua che ha intrappolato l’intrusione nociva “all’aperto, lontano dal paziente e dal gruppo: qui getta via il contenuto” (Harner 1999: 194).
Nella cerimonia della fascinatura la fattucchiera comprende la presenza di una “reale” presenza invasiva negativa dal fatto che si producono, nel mentre, in maniera del tutto naturale, una serie di sbadigli così frequenti da farla lacrimare. La presenza dello sbadiglio, quindi, è prova di presenza di malocchio.
Lo sbadiglio, visto nella sua essenzialità, quale riflesso della inalazione ed espirazione del respiro, è l’atto di succhiare aria dall’esterno per poi rimandarla fuori. Richiama dunque la suzione rituale, con relativo rigetto, del tutto simile all’atto di estrazione proprio dello sciamanismo. Inoltre essendo legato alla stanchezza, è anche metaforicamente legato al sonno che coglie lo sciamano il corpo del quale giace “addormentato” tutte le volte che questi compie viaggi negli altri mondi. Come vedremo più avanti, nello sciamanismo indoeuropeo esiste un legame molto stretto tra i rituali estatici, che prevedono l’alterazione dello stato di coscienza, e il sonno – sia questo provocato dal ritmo monotono del tamburo o da sostanze psicoattive tra cui, come vedremo più avanti, il papavero da oppio.
Come nel caso dello sciamano primitivo, al termine del cerimoniale di rimozione del malocchio, dopo le debite segnature e la ripetizione in mente, monotona e sempre uguale, delle formule magiche, l’agente/fattucchiera si laverà le mani, sulle quali è rimasta “attaccata” la malevolenza, affinché questa passi all’acqua che verrà raccolta in un contenitore. Infine, getterà per strada, fuori dalla porta di casa, l’acqua nella quale è rimasta “intrappolato” il malocchio, nella convinzione che il primo passante prenderà su di sé gli effetti nefasti della malìa.
L’acqua, dunque, funge in entrambi i rituali da veicolo per la maledizione, avendo la qualità di intrappolarla in sé.
L’historiola o degli Spiriti Aiutanti
Lo scongiuro con historiola recitato mentalmente dalle fattucchiere lucane, che nella sua formula varia da paese a paese, non può essere rivelato se non nella notte di Natale, pena la perdita del potere magico di estrarre il malocchio (qualità, questa, che ne indica il carattere esoterico e iniziatico). Tale formula chiama in causa i Santi, Dio, la Trinità, la Madonna e altre figure dell’universo religioso cattolico.
In altri termini, la fattucchiera non opera di per sé, ma per mezzo di qualcuno più potente. Essa diviene tramite tra le potenze celesti e l’affatturato, nella metafora dell’ “osso cavo” attraverso il quale passa il potere di “guarigione” proprio dello sciamanismo. La fattucchiera cioè richiede l’intervento di figure sovrannaturali potenti, un aiuto spirituale esterno. A Viggiano, in provincia di Potenza, nella struttura della formula magica sono evidenti sia i veicoli attraverso cui si esercita l’intrusione malevola – occhio/sguardo; mente/pensiero; volontà/invidia – sia le tre figure che a queste si contrappongono – la Trinità:
Chi t’ave affascinate?
L’uocchie, la mente e la mala volontà
chi t’adda sfascinà?
Lu Padre, lu Figliuolo e lu Spirito Santo.
(Chi ti ha fascinato?
L’occhio, il pensiero e la cattiva volontà
Chi ti deve togliere il fascino?
Il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo.) (De Martino 2003: 18)
Tale formula va ripetuta tre volte e ogni volta, in chiusura, è necessario recitare un Pater o farsi il segno della croce.
Similmente, nello sciamanismo nessuno sciamano può operare da se stesso, ma solamente mediante l’intervento dei suoi spiriti aiutanti o animali di potere.
Benedict (1923: 67) conclude che lo sciamanismo si basa “sulla ricerca della visione e dello spirito guardiano”. Perciò il potere di uno sciamano dipende dai suoi “spiriti ausiliari”, di cui si fa tramite. Sono loro che hanno il potere di operare sul paziente, ma solamente per tramite dello sciamano.
Anche l’atto della fattucchiera lucana di segnare la fronte del paziente con “massaggi divergenti e con segni di croce” può essere avvicinata all’azione dello sciamano che usa le mani per “afferrare” le intrusioni ed estrarle dal corpo del paziente. Una tecnica alternativa alla suzione prevede infatti l’uso delle mani da parte dello sciamano che avviene in fusione (merging) con i propri spiriti aiutanti e in uno stato alterato di coscienza (Menegoni 2015), non dissimile dallo stato oniroide della fattucchiera che toglie il malocchio con le mani nel medesimo stato.
Una menzione speciale per il sole.
Una particolare manifestazione del negativo si ha in quello che è chiamato a Pisticci, in provincia di Matera, “o chiuve” – il chiodo solare, cioè quel mal di testa che arriva al calare del sole, dopo una giornata di fatica nei campi. Il modo per toglierlo – estrarlo – è recitare all’alba, da parte della persona colpita, vari tipi di historiolae, come quella di Ferrandina:
Lévati cigghie come se leva ‘o sole
Come se leva Ddie Salvatore.
(Lévati mal di testa come si leva il sole,
come si leva Dio Salvatore). (De Martino 2003: 28)
In questa formula, di tipo sincretistico pagano-cattolica, il levarsi del sole è posto in relazione alla resurrezione di Cristo.
Il giorno di Natale è prossimo al solstizio d’inverno, nei giorni cioè in cui il Sol Invictus, il sole imbattuto – e imbattibile – riprende forza e sconfigge le tenebre guadagnando terreno un giorno dopo l’altro.[5]
Nella seguente canzone degli indiani della Costa Nord della California si noti come il sole venga invocato quale luce che porta il dolore lontano, proprio in quell’acqua succitata capace di neutralizzarlo:
Morning sun, morning sun
Come my way, come my way
Take my pain, take my pain
Down below, down below
To cool waters down below
La presenza dell’acqua è altresì presente nello scongiuro di Pisticci usato per le malattie della pelle (De Martino 2003: 30) e molte altre.
Conclusioni
Nel paragrafo 4 “Magia lucana e magia” del grande lavoro etnografico di raccolta sul campo “Sud e magia” lo studioso Ernesto De Martino scrive: “una magia di tipo lucano si affaccia ancor oggi in numerose aree folkloriche della civiltà moderna, variamente influenzata dalle forme culturali egemoniche. Una magia di tipo lucano si ritrova presso i popoli cosiddetti primitivi, con la differenza della maggiore diffusione e complessità, e del molto più elevato grado di integrazione con la restante vita culturale; di guisa che, tenendo conto di questa riserva, potremmo facilmente riadattare alla magia lucana molti rapporti etnografici relativi alla magia delle civiltà studiate dall’etnologia, per es. il rapporto di Strehlow a proposito della magia degli Aranda centro-australiani:
‘L’arte dello stregone consiste specialmente nel rendere innocua l’influenza di uomini ostili o di esseri maligni. Egli è chiamato in casi gravi, o che la malattia sia causata da persone ostili, o che invece la causa di essa sia una entità demoniaca… Tutte le malattie sono ricondotte dagli indigeni a influenze esterne, e cioè ad uomini che con l’aiuto della magia nera asseriscono di poter causare la morte di un altro individuo, ovvero a demoni che in forma animale o nei fenomeni naturali (p. es. nei venti maligni) si avvicinano all’uomo e gli recano danno’”(Strehlow, 1907: 28-40)
Lo studioso continua asserendo che la fascinazione lucana si richiama alla ‘baskania’ dei Greci e al ‘fascinum’ dei romani, e che tale stato trova posto non soltanto nella magia dei primitivi (soprattutto nello sciamanismo), ma in tutte le religioni viventi o scomparse che siano (De Martino 2003: 109-111).
Tali fenomeni, come riscontrati nel fascino lucano, sono osservabili in ogni parte del mondo e conservano strutture analoghe, seppur più o meno evidenti in dipendenza del livello di integrazione nella cultura di appartenenza.
La credenza secondo la quale gli Indoeuropei non abbiano conosciuto una fase etnolinguistica e culturale preistorica e che, perciò, non presentassero i tratti tipici delle civiltà primitive di tipo tribale è una delle teorie sulle sorti dei nostri lontani antenati (Costa 2001: 215-260).
Secondo la Paleolithic Continuity Theory di Costa e Alinei nel Paleolitico gli indoeuropei sarebbero già insediati nelle loro sedi storiche, diretti discendenti dei primi sapientes sapientes, e perciò si ipotizzerebbe una sostanziale unità indoeuropea esistente da almeno quarantamila anni, arricchita da contatti orizzontali con popoli peri-indoeuropei.
L’identità enotria dell’attuale Basilicata, come attestato da ritrovamenti archeologici (Bianco e Preite 2014), era il risultato di molteplici influenze egeo-micenee e illirico-balcaniche, e la letteratura greca, dal VI sec. A. C. fino ad arrivare a Strabone e Aristotele, operò una ricostruzione dell’ethos enotrio lucano da un punto di vista ellenico. È plausibile inferire in questo movimento di ricomposizione una azione funzionale alla legittimazione delle stesse colonie greche nel meridione d’Italia, per affermare la superiorità civilizzatrice della cultura greca su quella autoctona.
Come sostiene Costa (2007: 85-95) “seppure con alcune illustri eccezioni (Erwin Rohde, Eric Robertson Dodds, Walter Burkert, etc.), la ricerca ha tra l’altro finora sottovalutato, se non misconosciuto, anche l’importanza delle numerose e significative vestigia dello sciamanismo nelle culture di lingua indeuropea, attribuendole per lo più a influssi vicino-orientali tardi e esotici.” In Britannia i Celti chiamavano le sacerdotesse “Gallizenas”. Esse potevano far gonfiare le onde del mare, agitare i venti, trasformarsi in animale, prevedere il futuro e guarire le malattie. (Corradi Musi 2004). In Grecia, Empedocle assicura che è possibile imparare calmare i venti, far piovere, e riportare “dall’Ade il vigore di un uomo ormai finito” [cfr. Empedocle, Fr., B111]. E Odino, dio-sciamano norreno, può trasformarsi in uccello, belva e molto altro mentre il suo corpo “giace come se dormisse o se fosse morto” [cfr. Snorri, Ynglingasaga, VII]. In Iran nel testo pahlavi Artāi Vīraz Nāmak, le cui origini orali sono di molto anteriori, si descrive un viaggio sciamanico nell’aldilà, ottenuto grazie a un rituale estatico e all’uso di droghe (Belardi 1996).
Studi recenti (Costa 2004, 2005, 2005 b, 2006, 2006b, 2006c, 2006d, 2006e, 2007) esaminano le testimonianze di miti e riti nella tradizione greca, italica, celtica, germanica, iranica, indiana, anatolica, eccetera “e soprattutto l’inquadramento generale del problema all’interno della teoria della continuità paleolitica, al contrario di quel che si è ritenuto finora, consente di far emergere con chiarezza l’evidenza di una fase sciamanica preistorica originale e propria alla storia etnolinguistica delle popolazioni indeuropee, uno sciamanismo indeuropeo le cui ultime propaggini sono ancora ben vitali, tra l’altro, nelle grecità arcaica e storica” (Costa 2008).
A tal proposito alcuni scavi in un edificio locale di epoca augustea a Castellammare di Velia, in provincia di Salerno hanno portato alla luce alcune iscrizioni riguardanti la “scuola medica di Velia”, antico insediamento focese comprato agli Enotri (Costa 2002: 223-241) nella quale si stabilì una compagine di esuli focesi. In queste trascrizioni si evincerebbe che il phṓlarchos era il capo-maestro di una scuola iniziatico-esoterica nella quale gli adepti venivano iniziati mediante la pratica dell’incubazione rituale, giacendo per molti giorni al buio, senza cibo, in uno stato di “morte apparente” dal quale tornavano guariti (Costa 2007).
Tale scuola di Velia fondata da Parmenide – e portata avanti dal suo allievo Zenone – era dedicata ad Apollo terapeuta e profeta: quello stesso dio il cui legame con lo sciamanismo è già noto (Detienne 1998) e i cui sacerdoti erano chiamati “viandanti del cielo”(cfr. Porfirio, Pythica, 29), epiteto dato agli sciamani anche in Tibet e in Mongolia (Kingsley 1999) e che mette in relazione il dio Apollo e l’incubazione rituale.
Sempre nell’ambito dello studio sullo sciamanismo indoeuropeo, si può citare l’uso dimostrato del papavero da oppio nella Magna Grecia arcaica quale sostanza psicotropa sacra usata a fini sciamanico-estatici, compresa la pratica appunto dell’incubazione iniziatica e terapeutica (Costa 2008). Secondo dati archeologici e paleoetnobotanici (Nencini 2004) il papaver somniferum deriva dalla coltivazione di una specie selvatica, il papaver setigerum, presente fin dal tardo Neolitico nell’Europa centro-occidentale. Alcuni resti di papaver somniferum sono stati ritrovati in vari siti databili al 4400-4300 a.C. anche in Italia, per cui è “legittimamente sostenibile l’ipotesi che fin dal tardo Neolitico l’oppio fosse usato come sostanza psicotropa a scopi rituali” (Sherrat 1991: 50-64), seppur circoscritto a pochi, selezionati ambienti esoterici. Essendo le qualità di questa sostanza – il cui uso magico è probabilmente il più antico d’Europa – sedative e narcotiche, il suo utilizzo si inquadra benissimo all’interno di esperienze mistiche e a fini iatromantici quali l’incubazione rituale nelle grotte tipiche della scuola di Velia o negli sbadigli della fattucchiera lucana.
La scuola di Velia non era lontana dal luogo in cui sorge attualmente Ferrandina, in provincia di Matera, già popolata dagli Enotri come ampiamente dimostrato dalla documentata opera in quattro tomi di Padre Carlo Palestina, intitolata “Ferrandina”. Questa popolazione praticava una religiosità di tipo magico-animistico, eredità di forme tribali ancora più antiche, e un politeismo antropomorfico duale, di tipo uranico – in connessione con la vita pastorale – e ctonio – in connessione con i ritmi della vita agricola e il succedersi delle stagioni. I primi insediamenti umani documentati dagli scavi archeologici finora effettuati fanno risalire l’esistenza di Ferrandina al IX – VIII secolo a.C. ad opera, appunto, degli Enotri, i quali furono progressivamente condizionati dal processo di acculturazione dei modelli formativi di matrice ellenica.
Questi uomini, per lungo tempo appartenenti a “un unico solo mondo culturale e ideologico di base” credevano alla sopravvivenza dei defunti anche nell’aldilà e per tale motivo continuarono nel tempo a mantenere una costanza nel rito funerario, che prevedeva, oltre alla presenza di oggetti di uso comune del defunto, il rannicchiamento di questi all’interno della fossa (Palestina 1994: 63).
In conclusione, alla luce dei più recenti studi sullo sciamanismo indoeuropeo e al termine di questa disanima sulla comparazione tra tecnica lucana di bassa magia cerimoniale per togliere il “fascino” e tecniche sciamaniche di “estrazione” delle energie nocive, possiamo avanzare una ipotesi di derivazione morfologica, contenutistica e temporale dell’una dalle altre, inferendo contestualmente che le analogie tra tali metodi arcaici di guarigione possano rappresentare traccia, ancorché debole e sfumata, di un sistema di credenze afferenti a caratteri sciamanici tipici di antichissime strutture societarie tribali del sud Italia in generale e nella Lucania in particolare.
Tracce che hanno resistito alla prova del tempo, a invasioni secolari continuative di popolazioni con sistemi religiosi e culturali molto diversi tra loro, non ultimo il sistema totalizzante e onnipervadente del cattolicesimo, sopravvivendo in un elegante e interessante movimento sincretistico comune a tutti i sistemi religiosi del mondo.
[1] Il monile è ricavato dall’ opercolo calcareo del mollusco Astrea rugosa.
[2] In Storia notturna, una decifrazione del sabba, 1997, Carlo Ginzburg pone a confronto l’analisi dei processi, i trattati di demonologia, le prediche, i documenti iconografici e il materiale folklorico per proporre un’interpretazione diversa del sabba, non come raduno notturno alla presenza del diavolo ma quale ultima eco di miti e riti eurasiatici a sfondo sciamanico.
[3] Il termine moderno “historiola” si riferisce a un tipo di incantesimo in cui brevi racconti mitici sono usati come formule magiche. Fonti storiografiche riportano formule che si riferiscono a miti egiziani, romani, ebraici e, appunto, cristiani.
[4] Per un approfondimento sull’universalità dei metodi si rimanda a Eliade 1974.
[5] Le celebrazioni per la sua nascita del dio Mitra avvenivano nei giorni del solstizio d’inverno, così come per altre divinità “solari” che furono unite sotto l’appellativo religioso del Sol Invictus in una sorta di “monoteismo solare”. Per approfondimenti si veda (Nestle 1973)
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